Negli ultimi giorni un episodio avvenuto a Teano ha scosso profondamente la comunità del casertano. Un ragazzino, appena uscito da scuola, stava semplicemente andando alla fermata dell’autobus quando è stato circondato da un gruppo di coetanei. Non li conosceva, non li aveva mai visti. Eppure, senza alcun motivo, è stato buttato a terra, colpito con calci, pugni, e perfino sputi. Un’aggressione improvvisa, violenta, gratuita. Una violenza che nessun giovane dovrebbe mai subire, e che nessun adulto dovrebbe mai abituarsi a leggere. La famiglia ha denunciato tutto, ma il dolore e lo shock che restano addosso a un ragazzo dopo un atto del genere non si cancellano facilmente.
E allora la domanda sorge spontanea: com’è possibile che dei ragazzi, appena usciti da scuola, in un pomeriggio qualsiasi, decidano di trasformarsi in branco? Com’è possibile che la fragilità di uno diventi il bersaglio della brutalità di molti? Qui non stiamo più parlando di una semplice prepotenza scolastica: siamo davanti a un gesto che mostra un inquietante vuoto di empatia.
Eppure, di fronte a tutto questo, la riflessione non può fermarsi al solo fatto di cronaca. Dobbiamo chiederci se episodi così lontani, solo geograficamente, non siano invece campanelli d’allarme che riguardano anche noi. Perché il bullismo, nelle sue tante forme, può insinuarsi in qualsiasi comunità, anche nelle più piccole, anche dove tutti si conoscono, anche dove pensiamo che “cose così non succedano”.
Ed è qui che entrano in gioco tutti, nessuno escluso.
Le amministrazioni hanno il dovere di promuovere progetti di prevenzione, spesi sicuri, campagne di sensibilizzazione che non restino solo parole su un manifesto.
Le scuole possono e devono intervenire con educatori, sportelli d’ascolto, dialogo costante con le famiglie e percorsi che insegnino ai ragazzi cos’è l’empatia, prima ancora della grammatica.
Le famiglie hanno un ruolo fondamentale: ascoltare, osservare, fare domande, accorgersi quando un figlio cambia, diventa più silenzioso, più nervoso, più chiuso.
Le associazioni possono essere un punto di riferimento, creare momenti di incontro, solidarietà, sport, crescita personale, dove i ragazzi imparano a riconoscere l’altro come una ricchezza.
La parrocchia, come parte viva della comunità, può dare voce e spazio a iniziative sociali, incontri, momenti di confronto, perché spesso è proprio lì che inizia il cambiamento culturale.
E poi ci siamo noi, come persone, come cittadini. Noi che possiamo smettere di minimizzare, noi che possiamo denunciare, noi che possiamo sostenere chi è più fragile, noi che possiamo insegnare ai nostri ragazzi che la violenza non è mai una prova di forza, ma solo un segno di vuoto.
Perché il vero antidoto alla violenza non è la paura, ma l’educazione. Non è il giudizio, ma l’ascolto. Non è puntare il dito, ma tendere la mano.
L’episodio di Teano non deve diventare solo un titolo di giornata. Deve essere un invito alla riflessione, un’occasione per guardarci dentro e domandarci cosa stiamo facendo — davvero — per proteggere i nostri giovani. Dovremmo pensare a quel ragazzino, a come si è sentito in quei minuti interminabili, e domandarci se, con un po’ più di attenzione da parte di tutti, qualcosa sarebbe potuto andare diversamente.
E allora fermiamoci un momento. Guardiamo ciò che è accaduto e chiediamoci se stiamo facendo il possibile per evitare che accada ancora. Perché il bullismo non si sconfigge con un articolo, né con una riunione, né con un post. Si sconfigge unendo le forze. Ogni famiglia, ogni scuola, ogni associazione, ogni angolo del paese può essere un avamposto contro la violenza.
E, soprattutto, ricordiamoci che un ragazzo che subisce non deve mai sentirsi solo. E un ragazzo che fa del male non deve mai essere lasciato libero di crescere nella violenza. Solo così, insieme, possiamo davvero cambiare qualcosa.

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