Nel 2025 il termine che più di tutti ha raccontato il nostro rapporto con i social, l’informazione e il modo in cui reagiamo online è senza dubbio “Rage Bait”. Una parola nata nel mondo digitale, ma che ormai attraversa politica, intrattenimento, giornalismo e persino le conversazioni quotidiane.
Cosa significa esattamente?
Rage Bait è quel contenuto – un post, un titolo, un’immagine, un commento – creato appositamente per farci arrabbiare. Non per informarci, non per coinvolgerci, ma per provocare indignazione immediata. Perché la rabbia, nel mondo digitale, è la moneta più preziosa: genera click, commenti, condivisioni, visibilità.
E così i social si riempiono di frasi spezzate, titoli fuorvianti, opinioni esasperate. Il risultato? Ci ritroviamo a reagire d’istinto, spesso senza nemmeno leggere o verificare, contribuendo a un ciclo infinito di polemiche.
Non informazione, ma ingegneria dell’indignazione.
La scelta di “Rage Bait” come parola dell’anno non è casuale. È un invito a riconoscere come i meccanismi dell’algoritmo stiano cambiando il nostro modo di comunicare. E forse anche il nostro modo di pensare.
Perché scrollando ogni giorno ci troviamo davanti non solo notizie, ma trappole emotive. E inevitabilmente nasce una domanda:
quante delle nostre reazioni sono davvero nostre e quante sono state previste, progettate, provocate?
In un periodo in cui stiamo riscoprendo l’importanza di comunità, verità e dialogo, “rage bait” diventa una parola-simbolo, un campanello d’allarme.
Un invito a fermarci un attimo prima di cliccare, prima di arrabbiarci, prima di farci trascinare nel vortice digitale che vive della nostra indignazione.
Forse la vera sfida del prossimo anno sarà proprio questa:
non cadere più nella trappola della rabbia costruita.

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